Era un tipo tutt’altro che impulsivo, ma a dispetto dell’impressione di pacatezza e tranquillità che emanava, aveva sempre avuto il coraggio di fare scelte difficili, quelle di fronte alle quali molti rinunciano ai sogni, forse non avrebbe sopportato di vivere senza sapere come sarebbe andata la propria vita se avesse avuto abbastanza coraggio.
Aveva 28 anni quando questa avversione per i rimpianti gli diede la forza e il coraggio di lasciare famiglia, amici, ambienti conosciuti, consuetudini e abitudini per attraversare il mare e trasferirsi in Sardegna. Capitò in un paese del Logudoro, che in pochi anni sentì più suo di quanto avesse mai sentito i luoghi in cui nacque o quelli che da bambino lo videro farsi uomo.
Ancora il timore di ritrovarsi a dire “se avessi avuto il coraggio…” lo spinse 6 anni dopo a cogliere un’opportunità professionale che lo restituì al continente, al luogo in cui era cresciuto, ma dove non riuscì a riabituarsi ai ritmi che non gli appartenevano più, e scoprì a sue spese che “sa vida de bidda”, gli mancava più di quanto avesse potuto immaginare.
Quando si presentò l’opportunità di tornare nell’Isola, non ebbe bisogno di fare riflessioni, tra il rischio di aspettare per anni un’occasione di tornare nel Logudoro, che poteva non presentarsi mai e la possibilità concreta reale e immediata di trasferirsi a Cagliari, non c’era nulla da scegliere.
Così si trovò ancora una volta a ricostruire la propria vita, ma questa volta aveva una dozzina di anni in più, una moglie e due figli.
Solo, nella camera di un B&B con una cartina in mano, cercava di studiare le distanze dei paesi dal posto di lavoro, dal mare, dall’aeroporto, dai siti inquinati, di valutare cosa poteva offrire ogni borgo.
Non era amante delle grandi città, escluse subito Cagliari, ma i paesi nei dintorni li visitò tutti, cercando di cogliere il carattere di ognuno, perché sapeva che come le persone anche le città hanno un carattere e non sempre l’essenza, l’anima di un paese corrisponde all’apparenza o si rivela al primo sguardo.
Alla fine scelse Sinnai, vicina alla città ma non così tanto da subirne la vita caotica, abbastanza lontana dai luoghi più inquinati, ai piedi della montagna, a due passi dal mare, campagna, pineta e parco dei Sette Fratelli, manca il cinema ma in pochi minuti ci si può andare, c’è il teatro, molte associazioni, gruppi sportivi, si, gli sembrava un posto in cui poter crescere i suoi figli.
Sinnai la conobbe tra l’autunno e l’inverno, passeggiò nelle vie del centro, scoprì i vicoli e gli scorci nascosti, annusò l’aria che odorava di brace e spandeva per le vie del paese l’intimità dei focolari, trovò molto gradevole piazza S. Isidoro ed eccessivamente originale la pavimentazione della via principale, ammirò i cestini e i panorami.
L’aveva già provata, ma era sempre una strana sensazione quella di scoprire un luogo, con uno spirito diverso da quello del turista che vuole vedere i luoghi più attraenti per trattenerne un ricordo, e diverso anche da quello del viaggiatore che cerca di scoprire anche i luoghi inconsueti, di conoscere gli ambienti e relazionarsi con le persone.
Scrutava i volti, i segni lasciati dalla vita o dai sacrifici, ma questi nulla potevano rivelargli sulla durezza, sull’ostilità o sull’animosità della gente, osservava la cordialità e l’allegria tra i ragazzi, la dignità e il rispetto tra gli anziani, i rapporti tra vicini, come avrebbe voluto che le sue sensazioni potessero rivelargli se quel luogo in futuro l’avrebbe potuto sentire suo, se in futuro avrebbe sentito di appartenere a quella comunità.
Entrò nei bar, nei negozi, e mentre scopriva quanto il campidanese fosse diverso dal sardo che conosceva e quanto poco riuscisse a comprenderlo, si chiedeva quanto, quel posto, poteva essere accogliente per i suoi figli, se avrebbero trovato una comunità disposta ad accompagnarli nella crescita o se li avrebbe rifiutati come avviene in altri posti per i forestieri, se lui e sua moglie sarebbero riusciti a fare nuove amicizie, coltivare le loro passioni, contribuire alla crescita della comunità, insomma quanto quel posto li avrebbe potuti accogliere, come si sarebbero inseriti in quella comunità e con quali sentimenti.
L’intera famiglia affrontò e superò le difficoltà grandi e piccole che si presentarono (e se ne presentarono…), mentre imparavano a conoscere la città, scoprivano i caratteri dei loro compaesani e la vivacità dell’ambiente, si accorsero di quanto fosse ricco di cultura e tradizioni il paese in cui vivevano, videro molto talento e sensibilità che si esprimevano nello sport, nella scrittura, nella poesia, nella fotografia, nell’arte e nell’artigianato, un po’ per volta conobbero le persone, intrecciarono relazioni, amicizie e nuove conoscenze, i bambini trovarono da subito un ambiente accogliente, insegnanti che si impegnavano molto nel guidare i bambini nello sviluppo, si inserirono agevolmente nei gruppi scolastici e sportivi; e dopo pochi anni i piccoli non avrebbero voluto vivere in nessun altro luogo che non fosse Sinnai.
Per i genitori ci sarebbe voluto un po’ di più, ma col passare del tempo cominciarono a sentirsi sempre meno “foresus”, e prima o poi quando sarebbe trascorsa abbastanza vita, anche gli amici sinnaesi non li avrebbero più visti come “foresus”…