All’interno della nostra rubrica “Contamì unu contu” pubblichiamo come sesto racconto i ricordi dei tempi duri vissuti da mio padre Efisio Luigi Olla durate il periodo della seconda guerra mondiale, quando aveva 18 anni. Si tratta di un lungo racconto, gelosamente custodito nel cassetto della sua scrivania per anni, dal quale emerge forte il valore dell’amicizia e della solidarietà in un periodo di grande crudeltà e distruzione.
Nella primavera del 1943 scelsi di non proseguire gli studi. Dopo aver conseguito la licenza media, impegnato nell’azienda paterna e, sperando in un avvenire migliore, decisi di arruolarmi in Aeronautica, in un corso di Marconista Meccanico.
Nonostante la guerra fosse in pieno corso di svolgimento, consapevole dei rischi che correvo non essendo ancora maggiorenne, decisi di partire in compagnia di un amico coetaneo, Raffaele. Ci presentammo insieme al comando militare dell’Aeronautica di Bologna, da dove ogni giorno venivamo accompagnati da un Maresciallo austero a seguire le lezioni presso l’Istituto “Aldini Valeriani”. Questo edificio si trovava in una Villa Privata; nella sua facciata era stata sistemata un’insegna, e, all’ingresso, la garitta della guardia. E proprio questo particolare si rivelò in seguito determinante per la nostra salvezza.
Una sera “tirato a lucido” mi recai al laghetto artificiale dove noleggiai una barca, e, mentre remavo, notai una ragazza che, tutta sola, guardava il movimento delle barche. Mi avvicinai alla banchina e gentilmente le chiesi se voleva farmi compagnia. Lei accettò e, mentre le tenevo la mano per farla salire sulla barca, questa iniziò ad oscillare fino a farci cadere in acqua.
Uscimmo poi dall’acqua divertiti e salutandoci ci demmo un appuntamento. I mesi passarono e la guerra infuriava e per l’Italia volgeva al peggio; ma ciò che per me e per altri determinò una svolta fu l’arresto di Mussolini, che modificò il quadro politico Italiano, in seguito al proclama del Generale Graziani che invitava tutti i giovani a presentarsi ai comandi militari per rientrare nelle file dell’esercito. Molti si diedero alla macchia costituendo il Movimento Partigiano.
Quando l’Italia firmò l’Armistizio, ricordo che i tedeschi assediarono tutte le caserme compreso l’aeroporto, facendo prigionieri tutti i militari. Il nostro presidio fu l’unico a salvarsi poiché, eliminata l’insegna e la garitta nell’ingresso, esso appariva come un edificio civile. Grazie alla popolazione che ci aiutò a vestirci con abiti borghesi, riuscimmo ad allontanarci evitando il dramma della prigionia. In quel caos senza mezzi per sopravvivere, coloro i quali avevano le famiglie oltre il fronte, accorgendosi che il presidio non era stato scoperto, tornarono e, per poter sopravvivere, vendettero lenzuola e coperte. Un giorno vendetti delle lenzuola ad una ragazza che non avendo soldi con sé, accompagnai a casa per poter essere “pagato” del valore delle lenzuola.
Ci fermammo all’ingresso dell’abitazione, dove vidi affacciato alla finestra un uomo non molto anziano. La ragazza mi disse che era suo padre, e subito entrò in casa per andare a prendere i soldi, ma rimasi in attesa ed in seguito vedendo che tardava ad uscire capii la “fregatura”, la mia ingenuità e stupidità. Me ne andai augurandole buona fortuna, e mentre rientravo al presidio pensai alla miseria, alle ristrettezze e alle tante difficoltà che spesso spingevano certe ragazze a vendere sé stesse per poter sopravvivere e fui intenerito dal comportamento di questa giovane donna.
Mi ritrovai a pensare a quale condizione difficile poteva portare l’ambizione sfrenata (che conduce inevitabilmente alla follia) sottraendo dagli uomini ogni capacità di ragionare ed obbligando loro a piegare la propria diversità, spingendo in questo modo i popoli verso il baratro.
In quei tempi anche i giovanissimi rampolli, ancora senza alcuna esperienza per poter trarre le conseguenze e capire l’orrendo obiettivo che il popolo tedesco intendeva raggiungere, erano spaventati e non riuscivano a vivere la vita che la loro età esigeva, pensavano anche loro come i vegliardi e cioè che davanti a loro avevano il nulla.
I tedeschi esasperati dal tradimento italiano diventarono ancora più efferati. Molti italiani rimasti fedeli al fascismo segnalavano alla polizia tedesca sia quei giovani scampati alla loro rappresaglia sia le famiglie che li aiutavano e li proteggevano, anche a rischio di subire le loro ritorsioni. Queste famiglie però, nonostante i rischi, non ci abbandonarono mai. Noi, sbandati, senza meta e sbattuti qua e là come relitti dagli eventi incessanti, procedevamo con la furbizia della volpe con l’accortezza della talpa.
Per questa insormontabile difficoltà che presentava la vita in città eravamo costretti, per necessità, a rivolgerci alle famiglie come se fossimo mendicanti, mettendo a repentaglio la loro vita. Decisi, quindi, con il mio amico compaesano di lasciare la città ormai diventata troppo pericolosa, scendendo verso giù all’estremità meridionale della penisola orientandoci con le stelle, per avere la possibilità di imbarcarci in qualche nave diretta in Sardegna.
Raccolte le pochissime cose indispensabili per affrontare questo lungo, avventuroso e pericoloso viaggio, ci mettemmo in cammino. Pur avendo una meta da raggiungere, non si poteva stabilire un itinerario di viaggio che tenesse conto della possibilità di incontrare luoghi di ristoro, il cui raggiungimento era affidato alle circostanze. Dato che era inevitabile, per poter sfuggire ai tedeschi, proseguire attraverso la campagna, evitando le strade, gli unici posti di ristoro restavano le cascine sparse e qualche cascinale isolato che sapevamo esser abitato solo da vecchi, ragazze e bambini, visto che i ragazzi erano coinvolti in questo vortice di distruzione.
Quando le famiglie ci facevano entrare o per spirito di umanità o consapevoli che anche i loro figli potevano vivere lo stesso dramma, mettevano sempre qualcuno di guardia durante la nostra permanenza, e quando andavamo via, non trascuravano di darci qualche provvista per il proseguimento del viaggio.
Nonostante queste difficoltà, tutte le famiglie, nessuna esclusa, pur nelle loro ristrettezze ci davano ciò che potevano, poiché anche per loro, in mancanza di braccia, sottratte al lavoro per essere messe a disposizione della distruzione, il raccolto era molto esiguo. Mentre si mangiava, a volte si parlava della situazione attuale, altre volte ci raccontavano della loro terra e delle loro abitudini e così ci scambiavamo le nostre impressioni sul modo di vivere.
Con una simile apertura d’animo coglievamo la loro sincera disponibilità: una grande ricchezza interiore che animava questa povera gente, per cui le loro singolari esperienze arricchivano anche noi e ci facevano comprendere che l’uomo pur nella sua individualità è parte di un sistema vitale universale che gli permette di sentirsi vicino al proprio fratello. Questa certezza ci rendeva sempre più consapevoli della nostra esistenza, intesa come spazio che si estende sempre più, man mano che la mente acquista maggiore consapevolezza della vita e obbliga l’orizzonte individuale ad allargarsi per vedere le cose sotto una luce più viva.
Ogni volta che la necessità ci costringeva ad avvicinarci ai beni di questi contadini, anche se preoccupati a causa della la crudeltà di quelle inumane polizie (SS) e a causa del risentimento dei fascisti fanatici, dato che non volevamo che restassero coinvolti in tristi situazioni, nonostante le loro insistenze affinché ci trattenessimo, restavamo sempre lo stretto necessario.
Malgrado la loro grande sofferenza c’era in loro una grande serenità senza nessun risentimento nei confronti di nessuno. Questo mi fece capire che, quando l’uomo rispetta la diversità umana, ha raggiunto la più grande ricchezza, perché vive in pace col mondo e con la vita.
Ogni giorno si doveva scegliere dove trascorrere la notte: in un cespuglio, dentro una siepe o dietro una roccia avvolti in una coperta militare che avevamo sempre con noi.
L’unica casa che avevamo era sempre quel grande spazio illuminato dalle stelle e, periodicamente dalla luna, ricoperto altrettanto immensa volta che mutava i colori e le luci. Certe notti la loro luminosità era più intensa di altre, sempre silenziosa, senza parvenza di altro uomo. Ogni rumore era qualche volta un fruscio di qualche battito di ali o qualche raro canto di uccello notturno o rumore del passaggio accorto di un animale in cerca di cibo.
In qualche notte passata insonne guardando la volta celeste illuminata da tante luci sparse qua e là, come in una grande città osservata da un’altura dopo il crepuscolo della sera, ci sembrava di non essere soli ed i nostri pensieri viaggiavano oltre la velocità della luce, e andavano, in quei momenti, a quell’isola lontana dove erano rimasti gli affetti e le speranze.
Le riflessioni, ancora, si fermavano presso quella ragazza che avevo lasciato in lacrime a Bologna, Angela, oppure pensando a quelle povere famiglie sparse in quelle casette che sorgevano ora in una valle in riva al fiume, ora in un dolce declivio o in una collina dove avevamo avuto occasione di fermarci a parlare con quella gente umile e semplice, sempre pronta a riceverci e darci una mano. Gente rimasta anch’essa senza figli, strappati dal focolare, in nome di un’assurdità alla quale avevano voluto dare parvenza di “dovere”.
Affinché questo cammino non perdesse, a causa della paura, la giusta direzione, confortati dalla speranza e dalla reciproca stima che ci univa nel comune dolore, le nostre menti si placavano e le palpebre si abbassavano, ed il sonno sopraggiungeva profondo come a rinvigorirci le forze per l’indomani.
Certe notti, in quelle in cui il sonno, intrappolato dalle molteplici preoccupazioni della condizione venutasi a creare, inesorabilmente conducevano i nostri pensieri inconsci a spaziare e a tornare dalle famiglie degli amici. Si ripresentavano alla mente le figure di quelle ragazze che avevamo sfiorato con dolce e tenero sentimento. In quei momenti di solitudine non eravamo mai soli, giungevano nostalgici quei bellissimi ricordi come per offuscare la nostra squallida condizione, ma sempre confortati dal fatto di non essere soli a viverla, poiché quasi tutte le famiglie del mondo erano coinvolte nella stessa sorte.
In alcuni momenti ci trovavamo assenti, come se guardassimo nel vuoto, e ci chiedevamo l’un l’altro cosa stessimo pensando. Ci accorgevamo, così, che, in quei momenti, i nostri pensieri erano simili. Una sera, mettendoci a dormire, ci promettemmo di alzarci all’alba e di proseguire perché privi di qualsiasi alimento.
Dopo lungo vagare, in più di un’occasione bevemmo acqua dalle pozzanghere, e ciò nonostante non ci ammalammo mai, quasi fossimo protetti da qualcosa o qualcuno.
Sfiduciati, preoccupati, stremati dalla fame, arrivammo in una collina nei pressi delle campagne di Rieti, dove in lontananza udimmo un tintinnio di campanacci che facevano pensare ad animali che vivevano con l’uomo. Digradando quel declivio arrivammo a valle, in un ruscello dove ci chinammo a bagnarci le labbra. Il tintinnio era diventato più forte, la fame si faceva sentire sempre più acuta, fino a che raggiungemmo alcune vacche che pascolavano a brado ai bordi del ruscello, sorvegliate da una vecchietta minuta molto gentile, che, ascoltando seria le nostre peripezie, si commosse e ci invitò a seguirla.
Dopo circa due chilometri, conversando con questa simpatica donnina, arrivammo ad un cascinale dove c’erano solo vecchi, ragazze e bambini, i quali, accorgendosi dell’insolita presenza, ci fecero entrare, affrettandosi a mettere in tavola del pane e della minestra calda con del formaggio. Mangiammo avidamente: eravamo in aprile, poco dopo l’equinozio. Il sole emanava un tiepido calore, la luna già perdeva il suo dominio lasciando spazio al sole che prolungava la sua presenza.
Questo cascinale era isolato dal paese ed anche qui mancavano i giovani, impegnati in questa assurda guerra e sbandati come lo eravamo noi due. In una lieve altura vedemmo una grande casa: era ampia ed abitata da proprietari terrieri che avevano i loro beni nei dintorni e avevano diversi dipendenti. La famiglia era composta da un’anziana vedova, nobile signora che si era risposata. Aveva avuto due figli dal primo marito: uno maschio, laureato in ingegneria, che dirigeva l’azienda; una figlia, laureata che si era sposata con un medico e un’altra figlia, laureanda, avuta dal secondo marito. Vivevano in questa casa tranquilla piena di provviste, senza alcuna preoccupazione, se non per la ritirata dei tedeschi quando gli americani avrebbero risalito l’Italia.
La povera donnetta che ci aveva accompagnati sul posto, sapendoci sbandati, ridotti a chiedere l’elemosina, propose a questo ingegnere di tenerci almeno fino a tempi migliori, naturalmente lavorando in azienda. L’ingegnere ci volle conoscere e, dopo averci osservato, decise di prender solo me perché il mio amico, essendo di costituzione gracile, non era adatto ai lavori nei campi.
Naturalmente io non accettai perché non avrei mai lasciato solo il mio amico col quale avevo condiviso la mia sorte. Così determinato come ero sempre stato, rifiutai quell’occasione di potermi fermare. La donnina, poiché voleva aiutarci a tutti i costi, riuscì a trovare una sistemazione per il mio amico presso due vecchie signorine.
Finalmente, dopo tre mesi di girovagare, ci fermammo.
Iniziai a lavorare per questo ingegnere. Il “salario” si limitava ad essere ciò che mangiavo e il posto che occupavo per dormire, ossia il pagliaio sovrastante la stalla, dove c’erano cavalli e vacche. Con la stessa coperta che mi era stata di riparo per tante notti feci di quel giaciglio, fatto di paglia in mezzo a delle balle di fieno, il mio letto.
Così proseguirono i giorni in questa nuova dimora che, in cuor mio, mi auguravo fosse un’effimera sistemazione, poiché, date le circostanze, era meglio che passare la notte all’aperto, considerato che il destino aveva stabilito per noi di vivere questi eventi. Un destino che, da una parte, ci chiedeva dei sacrifici e, dall’altra, ci faceva capire le ingiustizie imposte dalla diversità dell’uomo.
Tutte queste importanti esperienze, che si sommavano l’una sull’altra, mi portarono a chiedermi il perché delle cose. Nella mia mente prese sempre più forma il concetto di una guida che ci indirizza e ci incanala.
Si poteva addossare la colpa ad Hitler ed al suo seguito. Mi chiedevo come mai questo individuo avesse una mente così contorta e soprattutto come mai le circostanze avessero voluto lui a guidare il popolo tedesco. Perché mai nella Bibbia leggevamo che gli ebrei sarebbero rimasti senza patria e sarebbero andati raminghi e invisi per il mondo e perché vennero mandati via dalla circoscrizione spagnola? Ma allora a chi attribuire le responsabilità se non ad un’azione unitaria che avesse procurato le circostanze?
Mi chiedevo da dove venisse questo potere che imponeva un esito diverso a seconda dell’essere umano con cui entrasse in contatto.
In quel particolare momento io mi trovavo in una stalla situata vicino ad un rustico caseggiato, con poche stanze dalle pareti sporche di un colore sbiadito dal tempo e con, a tratti, l’intonaco cadente, dove abitava un dipendente con la famiglia composta da sette figli, dei quali la maggiore era una ragazza che non superava i sedici anni. Il salario era troppo misero per poter soddisfare i bisogni di una famiglia così numerosa ed io, essendo sensibile a questi bisogni, cercai di aiutarli.
Tutti i giorni lavoravo nell’azienda con gli altri dipendenti, tutti i giorni a tarda mattinata arrivava un’abbondante colazione. Quando tra questo cibo c’era qualcosa che si poteva conservare la davo sempre a quei bambini. Una sera a cena raccontai che mio padre possedeva una cavalla che utilizzava per i suoi spostamenti, e che, quasi tutti gli anni, faceva figliare e che io già da adolescente sapevo cavalcare e domare.
Questo racconto fu riferito all’ingegnere che, avendo una puledra di due anni e mezzo, mi propose di sottometterla al volere dell’uomo. Una mattina montai la puledra che, dopo aver tentato di buttarmi giù dalla sella, lasciai andare allontanandoci velocemente. Rientrammo dopo circa due ore, proprio quando il sospetto che fossi scappato via per proseguire il viaggio più comodamente con il mio amico stava per diventare certezza. Con questo ritorno non atteso, conquistai la fiducia dell’ingegnere e da quel giorno mi fece dormire a casa sua.
Dopo aver dimorato per mesi in questa abitazione, poiché la rappresaglia della polizia tedesca si intensificò, con i fascisti rimasti fedeli a Mussolini, diventava sempre più pericoloso sia per i fuggitivi, considerati disertori, sia per chi li accoglieva. Quindi, per non far correre dei rischi a questa famiglia, decisi di andare via.
Il giorno della partenza l’ingegnere mi diede una lettera da consegnare ad una Maresciallo Sardo. Andai dal mio amico che non vedevo da diversi mesi, per dirgli che stavo partendo, e gli chiesi se era disposto a venire con me, ma lui, sentendosi sicuro in quella casa, preferì non seguirmi.
Giunsi al paese dove prestava servizio questo Maresciallo, gli consegnai la lettera, lui la lesse e mi invitò a seguirlo. Mi portò in un piccolo ospedale che i tedeschi stavano ristrutturando. Si avvicinò ad un uomo sulla cinquantina, che, dopo aver parlato, mi chiamò e mi chiese se avessi già lavorato nel settore edile. Gli risposi di no. Mi consegnò una cazzuola e mi affidò a due muratori. Lavoravamo sorvegliati dai tedeschi che, stranamente, non fecero caso alla mia età e con mia grande sorpresa venni anche pagato.
Ero lieto di contribuire a preparare un ambiente atto ad alleviare gli orrori della guerra. Per dormire mi recavo in casa di un anziano muratore che con sua moglie, una donna che portava ancora i segni di una non lontana bellezza, mi offriva la colazione, mi preparava qualcosa per il pranzo ed al rientro la sera la cena.
Un giorno fummo caricati in un camion tedesco e portati a sistemare le scarpate delle sponde del Tevere, dove era stato distrutto un passaggio di fortuna durante un bombardamento (passaggio che serviva per andare da una sponda all’altra). Mentre lavoravamo arrivò una formazione di aerei da bombardamento, i tedeschi ci ordinarono di buttarci dentro i fossi scavati in precedenza lungo la Flaminia.
Terminato il bombardamento ci ordinarono di uscire dai fossi. Io decisi di non uscire e rimasi nel fosso più di due ore ed uscii quando sopraggiunse l’oscurità. Mi incamminai verso il cascinale per salutare e per chiedere al mio amico se voleva proseguire il viaggio verso casa, ma, quando arrivai, l’ingegnere mi chiese se fossi disposto ad accompagnare le signore in montagna. Vista la situazione, riteneva potessero stare in un posto sicuro lassù.
Quando rientrai, l’Ingegnere e suo cognato mi chiesero di restare ancora per qualche giorno con loro. All’alba del terzo giorno, fummo svegliati da un rumore assordante di spari e di camion che si fermarono nel piazzale del cascinale: erano i tedeschi in ritirata. Anche questa volta con mio grande stupore non fecero caso a me. Dopo due giorni ripartirono perché gli americani avanzavano rapidamente. Non essendovi più pericolo per la rappresaglia della polizia tedesca nella discesa verso il sud d’Italia, decisi di ripartire. E così dopo circa otto mesi lasciai quella casa, grazie ad un’occasione insperata.
Le donne dove si era rifugiato il mio amico (il quale per settimane, per non compromettere quelle donne, si era nascosto nello scantinato) avevano un nipote ufficiale venuto in licenza che prestava servizio in Sardegna. Quest’ultimo si offrì di accompagnarci con un mezzo di fortuna. Arrivammo a Roma dove lui aveva la fidanzata e dove restammo per due giorni. All’alba del terzo giorno partimmo per Napoli con un camion militare. Arrivammo a Napoli dove, ancorata non più di un miglio dal porto, c’era una nave militare che partiva per la Sardegna. Alla sera con i pochi soldi rimasti pagammo un barcaiolo per accompagnarci alla nave e nella confusione riuscimmo a salire a bordo senza essere fermati. Finalmente quella traversata tanto attesa divenne realtà.
All’alba cominciavano a vedersi le coste della Sardegna. Quando finalmente arrivammo a Cagliari, trovammo una città che, a stento, riconoscemmo poiché portava i segni della follia umana.
Partimmo per Sinnai facendo sosta a Quartucciu dove risiedeva mio zio che avvisò i miei familiari, i quali vennero a prenderci. E così dopo circa diciotto mesi di assenza finalmente ritornammo a casa!
15 febbraio 1988
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Efisio Luigi Olla